mardi 26 mars 2013

CONVEZIONE DEL MANTELLO TERRESTRE


Sia lo strato superiore sia quello inferiore sono coinvolti nella convezione, anche se in misura e con modalità differenti
Per un nuovo modello del mantello terrestreUna nuova ricerca pubblicata sulle pagine della rivista “Nature” affronta un'annosa questione delle scienze della Terra: come conciliare gli attuali modelli convettivi del mantello terrestre con la presenza di antichi gas nobili nelle rocce vulcaniche.
Un gruppo di ricerca frutto della collaborazione tra la Rice University e l'Harvard University ha infatti sviluppato un nuovo modello per spiegare in che modo elio, neon e argon vengano persi dall'interno della Terra durante la convezione del mantello.
"Secondo la maggior parte dei modelli esistenti, la convezione avrebbe dovuto depauperare ampiamente il mantello di gas nobili, a meno che parte o tutto del mantello inferiore sia rimasto in qualche misura isolato”, ha commentato Helge Gonnermann, docente di scienze della Terra della Rice. "Così siamo andati a verificare se ci potesse essere un meccanismo in grado di preservare gli antichi gas nobili nel mantello inferiore senza con ciò mettere in forse lo schema complessivo della convezione.”
L'elio-3, per esempio, non può essere creato da alcun processo all'interno della Terra, e si ritiene perciò che tutto quello che si osserva di questo isotopo sia ciò che resta della formazione planetaria. Pertanto, via via che i cicli convettivi si susseguono, i geochimici si aspettano di rilevare sempre meno elio-3: è infatti ciò che si riscontra nella maggior parte dei basalti che si formano dalla lava che fuoriesce dalle dorsali oceaniche, a parte alcune eccezioni rilevate nelle Hawaii e in altre isole.
Il nuovo modello prevede
che sia il mantello superiore sia quello inferiore siano coinvolti nella convezione, anche se in misura e con modalità differenti: mentre il mantello superiore è stato ampiamente degassificato per via di diversi cicli tettonici, la parte inferiore ha subito all'incirca un solo riciclo negli ultimi 4,5 miliardi di anni.
Il continuo mescolamento delle placche di subduzione nel mantello inferiore ha avuto come effetto la diluizione della concentrazione degli antichi gas nobili, che in tal modo vengono estratti in quantità sempre minori. Di conseguenza, circa il 40 per cento dell'antico elio-3 può essere presente nel mantello inferiore, sebbene quest'ultimo possa aver subito un solo ciclo tettonico.
"Contrariamente alla visione convenzionale, secondo cui il ciclo tettonico del mantello inferiore avrebbe dovuto produrre un notevole mescolamento tra la parte inferiore e quella superiore del mantello, cancellando le differenze nella concentrazione dell'elio-3, abbiamo riscontrato che il ciclo del mantello inferiore praticamente bypassa quello superiore”, hanno spiegato i ricercatori. "I processi di subduzione e il mescolamento nel mantello inferiore sono bilanciati dai pennacchi ricchi di elio-3, che provengono dal mantello inferiore, ricchi di elio-3, senza moscoalrsi in modo significativo mentre attraversano il mantello superiore

La prima mappa globale del confine tra crosta terrestre e mantello


Grazie ai dati resi disponibili dal satellite gravitazionale GOCE dell'ESA è stato possibile realizzare la mappa più precisa ed estesa della cosiddetta discontinuità di Mohorovicic, che segna il confine tra la crosta terrestre e il mantello. Il risultato apre la strada a una più approfondita conoscenza dell'interno del nostro pianeta e delle sue dinamiche
La prima mappa globale ad alta risoluzione del confine tra la crosta terrestre e il mantello – la cosiddetta Moho – è stata realizzata sulla base dei dati del satellite gravitazionale GOCE dell'ESA. Una migliore comprensione della Moho, sostengono i ricercatori, costituisce una solida basa per arrivare a un modello più raffinato dell'interno della dinamica dell'interno del nostro pianeta.

La crosta terrestre, come è noto, è la parte più esterna dello strato solido che riveste il nostro pianeta. Sebbene rappresenti solo l'1 per cento del volume del pianeta, la crosta è eccezionalmente importante perché accoglie tutte le nostre risorse geologiche come il gas naturale, il petrolio e i minerali.Inoltre, insieme alla parte superiore del mantello, è anche il luogo in cui avviene gran parte dei processi di grande importanza per la dinamica terrestre come i terremoti, il vulcanismo e l'orogenesi.

Fino a un secolo fa, non si sapeva che la Terra avesse una crosta; poi, nel 1909 il sismologo croato Andrija Mohorovicic trovò una brusca discontinuità nella velocità di trasmissione delle onde sismiche a circa 50 chilometri di profondità. Da allora, questa discontinuità e il mantello sottostante è nota come discontinuità di Mohorovicic o Moho.


La prima mappa globale del confine tra crosta terrestre e mantello
Cortesia GOCE/ESA 
Tutto ciò che sappiamo attualmente sugli strati profondi del nostro pianeta deriva da due tipi di indagine: sismico e gravimetrico. I metodi sismici sono basati sull'osservazione di variazioni nella velocità di propagazione delle onde sismiche tra la crosta e il mantello. Nel caso dei metodi gravimetrici, si studiano gli effetti gravitazionali dovuti alla differenza di densità causata dalla varietà di composizione della crosta e del mantello.

Entrambi i metodi sono di solito limitati dalla ridotta copertura dei dati disponibili, che riguardano singoli profili. Proprio per cercare di colmare questa lacuna è stato ideato il GOCE Exploitation for Moho Modelling and Applications Project (GEMMA), condotto dal ricercatore italiano Daniele Sampietro del Politecnico di Milano, che ora ha permesso di realizzare la prima mappa ad alta risoluzione della Moho sulla base dei dati rilevati con il satellite GOCE.


La prima mappa globale del confine tra crosta terrestre e mantello
cortesia ESA/AEOS
Lanciato nel marzo 2009 e realizzato con un importante contributo scientifico e industriale dell'Italia (il satellite è stato integrato negli stabilimenti di Thales Alenia Space di Torino), GOCE misura il campo gravitazionale terrestre e ne ricava un modello del geoide con accuratezza mai raggiunta finora, consentendo di ottenere preziose informazioni anche sulla circolazione oceanica, che a sua volta riveste un ruolo cruciale negli scambi energetici intorno al globo e sui processi che si svolgono nella parte interna del pianeta.

Per la prima volta, è stato così possibile stimare la profondità del Moho in tutto il mondo con risoluzione senza precedenti, incluse aree per cui i dati al suolo non sono disponibili. Questo offrirà nuove informazioni per la comprensione della dinamica dell'interno della Terra, smascherando il segnale gravitazionale prodotto dall'irregolare distribuzione di densità prodotta dalla parte della crosta presente sotto la superficie
.

I continenti che scivolano su uno strato di magma


La possibilità di movimento delle placche tettoniche era finora attribuita all'acqua disciolta nei minerali del mantello, che ne avrebbero reso duttile la parte più esterna. Grazie a nuovi strumenti di osservazione magnetotellurica si è invece scoperta l'esistenza di un ampio strato di roccia fusa che fa da cuscinetto fra mantello e litosfera 
Un ampio strato di roccia fusa spesso fra i 12 e i 25 chilometri e situato a una profondità compresa fra i 45 e i 70 chilometri: è questo il “lubrificante” dei movimenti di scorrimento delle massicce placche tettoniche sopra il mantello della Terra. La scoperta, che potrebbe avere implicazioni di vasta portata sulla comprensione sia dei processi tettonici in generale, sia del vulcanismo e dei meccanismi responsabili dei terremoti, è di un gruppo di ricercatori della Scripps Institution of Oceanography e della Woods Hole Oceanographic Institution, che ne parlano in un articolo pubblicato su “Nature”.

Da decenni gli scienziati si arrovellano sui meccanismi che consentono alle placche di scivolare sul mantello: studi precedenti avevano portato a ipotizzare che l'acqua disciolta nei minerali del mantello rendesse quest'ultimo sufficientemente duttile da consentire i movimenti delle placche. Tuttavia non si disponeva ancora di dati che permettessero di confermare o smentire questa ipotesi.

I continenti scivolano su uno strato di magma
Lo strato magma è indicato in arancione, delimitato da una linea tratteggiata. Le aree blu rappresentano la placca delle Cocos che, scivolando sul mantello, si sta immergendo sotto il continente centroamericano.(Cortesia Samer Naif et al. / Nature)
Per cercare di risolvere la questione Samer Naif e colleghi hanno condotto una missione al largo delle coste del Nicaragua, in un punto della Fossa medio-americana che separa la placca delle Cocos dalla placca caraibica, per vedere che cosa avviene al confine fra litosfera e astemnosfera, ossia fra la crosta e il mantello terrestre. I ricercatori hanno usato speciali stazioni magnetotelluriche sviluppate alla Scripps Institution che sfruttano un'avanzata tecnologia di imaging elettromagnetica del fondo marino, collocando 50 di queste apparecchiature  a intervalli variabili fra i 4 e 10 chilometri, e a profondità comprese fra i 60 e i 5150, metri in modo da ottenere un dettagliato profilo della Fossa lungo 280 chilometri.

L'elaborazione dei segnali elettromagnetici naturali ha mostrato un quadro assolutamente inatteso. "I nostri dati ci dicono che l'acqua non è in grado di giustificare le caratteristiche che stiamo vedendo", ha detto Naif. "Le informazioni ottenute dalle nuove immagini confermano invece l'idea che ci sia una certa quantità di materiale fuso nel mantello superiore e sia questo il vero responsabile di quella duttilità che permette alle placche di scorrere."

lundi 25 mars 2013

TRAITEMENT ET TRANSPORT DU PETROLE

Traitement de la substance extraite


       Traitement et transportLe pétrole brut que l'on vient d'extraire du sous-sol ne peut pas être utilisé directement. Tout d'abord, le liquide récupéré n'est pas entièrement constitué de pétrole ! Il contient encore une certaine quantité d'eau ainsi que de gaz provenant de sa formation (voir première partie). Et ce n'est pas tout, il contient également des impuretés solidestelles que des petits morceaux de roche qui, piégés dans le pétrole en ascension, ont aussi remonté à la surface par la pression. L'objectif du traitement est de séparer ces éléments du pétrole brut "pur". Ce traitement est le plus souvent réalisé sur place, dans des installations spéciales, et ce dès l'extraction. En effet, il faut traiter avant de vouloir transporter le pétrole : les impuretés pourraient sérieusement endommager les installations servant à son transport.
Le pétrole extrait est directement acheminé vers une centrifugeuse : la force centrifuge appliquée sépare alors les impuretés du pétrole brut, qui peut à présent être exporté par divers moyens de transport.


[ Photo : Installations de traitement du pétrole. ]
2. Transport du pétrole brut
a) Où ? 

Le pétrole brut est le plus souvent transporté vers deux destinations :

Traitement et transport1)    Les raffineries (situées dans les pays les plus développés), où le pétrole brut est traité chimiquement en plusieurs étapes, afin d'obtenir divers produits finis prêts à la consommation tels que les carburants y compris le gazole (automobiles, camions), le kérosène (avions), les fiouls domestiques (chauffage), les fiouls lourds (bateaux, production d'électricité dans les centrales thermiques) ainsi que du butane et du propane (gaz).En Alsace par exemple, la raffinerie de Reichstett “Petroplus Raffinage Reichstett” (PRR) produit 4,2 millions de tonnes de produits finis par an à partir de pétrole brut. C'est la plus petite des 13 raffineries de France métropolitaine.

Photo : Installations de la raffinerie de Reichstett.

2)
    Les terminaux de chargement : à partir de là, le pétrole est exporté vers d'autres pays.

b) Comment ?

Traitement et transportL'acheminement du pétrole brut se fait principalement par 
deux moyens :


1)    Les oléoducs, ou pipeline, constituent le plus sûr des moyens de transport du pétrole. Actuellement, un million de kilomètres de ces canalisations sillonnent la planète, que ce soit sur terre, sous terre, ou en mer. Les seuls inconvénients des oléoducs résident dans leur coût de construction élevé, ainsi que dans leur manque de flexibilité.
L’approvisionnement en pétrole brut de la raffinerie de Reichstett se fait en grande majorité par l’intermédiaire du Pipeline Sud Européen (PLSE) en provenance du port pétrolier de Fos sur mer en Méditerranée.

Photo : Un oléoduc en Alaska.


Traitement et transport2)    Les quelque 7400 pétroliers, ou tankers assurent letransport du pétrole brut et des produits pétroliers autour du globe. L'avantage de ce moyen de transport réside dans sa souplesse : les pétroliers sont mobiles et peuvent potentiellement aller n'importe où, ce qui n'est bien entendu pas le cas des oléoducs fixes. Cependant, l'inconvénient est que ces pétroliers ne peuvent pas voyager à vide, et qu'une fois leur cargaison déchargée, il leur faut embarquer un volume d'eau de mer important afin d'assurer leur stabilité et leur permettre de s'enfoncer suffisamment pour que leur hélice de propulsion soit totalement immergée.


Photo : Un Super Tanker , pétrolier d'une capacité
de charge de 400 000 tonnes environ.

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Dans cette partie, nous avons étudié le pétrole, de sa formation jusqu'à son export.


Son exploitation est l’un des piliers de l’économie industrielle contemporaine, car il fournit la quasi totalité des carburants liquides indispensables au fonctionnement du monde d'aujourd'hui. Le pétrole représente donc une grande richesse pour les pays qui en possèdent abondamment dans leur sous-sol, à tel point qu'on a pu le qualifier "d'or noir". Son incidence quasi universelle dans l'économie, comme source d'énergie ou comme matière première, en font une ressource fondamentale dont le "libre" accès revêt une importance stratégique dont les conséquences géopolitiques sont non-négligeables. Dans une seconde grande partie, nous verrons les conséquences positives de l'exploitation de cette ressource très convoitée.

EXPLOITATION DU PETROLE

Exploitation
Maintenant que le gisement a été localisé précisément et que les spécialistes ont déterminé sa productivité, il peut être exploité. Cependant, une question se pose toujours avant de commencer l'exploitation proprement dite : comment produire les hydrocarbures dans les meilleures conditions de sécurité et en essayant d'en extraire le plus possible ?
Forage et exploitation

a) Evaluer avant d'exploiter

       L'exploration pétrolière mise en place précédemment a déjà coûté plusieurs millions à dizaines de millions d'euros par forage. L'exploitation sera encore plus coûteuse et se chiffre en plusieurs centaines de millions, voir plus d'un milliard d'euros. Avec des enjeux aussi grands, la décision de mise en exploitation ne se fait donc pas du tout à la légère. Les soucis derentabilité son alors placés en première ligne, et il n'y a pas droit à l'erreur ! Sera-t-il rentable d'exploiter le gisement découvert ? 
Plusieurs facteurs entrent en jeu, et l'évolution du prix du baril de pétrole et du gaz, des facteurs non-prévisibles, deviennent alors très importants. La vente de la production devra servir à couvrir tous les frais d'exploration et d'exploitation, ainsi que de générer un bénéfice suffisant ! 


Pour cela, il va falloir passer par 3 étapes clé avant de décider d'exploiter ou non.
1) La première chose à faire est un récapitulatif des données techniques essentielles qu'ont fourni les forages à titres exploratoire sur la productivité du gisement : sa profondeur et sa forme, la répartition des hydrocarbures, et surtout les volumes d'hydrocarbures accumulés dans le gisement. Ces données permettent déjà d'évaluer la "durée de vie du gisement".
2) Dans un second temps, il faut déterminer le nombre de forages nécessaires à la production ainsi que leur localisation. D'autres installations de production sont également à prévoir, tels que les dispositifs de traitement des hydrocarbures extraites, de stockage provisoire et d'expédition. Pour cela, il faut élaborer un véritable projet d'implantation des différentes structures de production.
3) Plus encore, il faut mettre en place un profil de production. Ce profil correspond à une simulation de la production entière, du début à la fin de la vie du gisement, en évaluant par exemple les volumes de production annuels.

Ce n'est que lorsque le projet est élaboré que l'on peut le valider et enfin décider d'exploiter. Il faut alors construire les installations, processus qui dure 15 années en moyenne. 


b) Produire

       L'objectif principal de la production est d'extraire le plus d'hydrocarbures du gisement et de le ramener à la surface où il pourra être traité et exporté. Pour avoir un rendement satisfaisant, il faut donc utiliser plusieurs forages couvrant l'ensemble de la zone se situant directement au-dessus du gisement où sont enfermés pétrole et gaz. Cette zone peut s'étendre sur plusieurs kilomètres !
Le gisement que l'on va exploiter aura une durée de vie variable : en général, les gisements ont une durée de vie de 15 à 30 ans, 50 ans pour les gisement super géants.
De plus, tout le pétrole et gaz contenu dans le sous-sol ne pourra pas être exploité, suivant les réservoirs la récupération varie de 10 à un peu plus de 50% au maximum.

Forage et exploitationComme nous l'avons vu précédemment, le pétrole est naturellement emprisonné dans la roche réservoir, et se situe entre le gaz et l'eau : il est donc sous pression. Si la roche couverture ne le retenait pas, il n'aurait pas stoppé sa migration (secondaire) et serait remonté à la surface de la terre. Le gaz situé au-dessus du pétrole exerce une pression sur ce dernier, c'est pour cela que lorsque le forage atteint la couche de pétrole, celui-ci est expulsé à travers le tubage vers la surface lorsque la pression est suffisante, c'est un "puits éruptif". Le pétrole est ainsi recueilli à la surface. Cependant, dans beaucoup des cas, au fur et à mesure de l'extraction du pétrole, la pression diminue, ce qui entraîne une diminution de sa vitesse de remontée. Lorsque cette vitesse devient trop faible, il est nécessaire d'installer une pompe pour poursuivre la production.

Afin de faire remonter pétrole et gaz de façon plus contrôlée, sans utiliser directement le tubage mis en place, les techniciens mettent en place dans le tubage un nouveau tube, le tube de production. Lorsque  ce tube se dégrade à cause de la corrosion ou de dépôts d'hydrocarbures, il peut donc être remplacé.
En arrivant à la surface, le pétrole brut extrait va commencer son circuit dans les installations mises en place à la surface. En particulier, il va être traité et stocké provisoirement puis exporté. 


Dans la prochaine partie, nous ouvrirons sur le traitement et le transport du pétrole brut sans trop de détails.

LE FORAGE

Forage

Exploitation proprement ditea) Emplacement du forage

        Après avoir mené différentes études géologiques et géophysiques, les experts ont déterminé l'emplacement théorique d'un piège à pétrole, le prospect. Afin de confirmer les théories, il faut à présent forer, c'est-à-dire percer en profondeur, afin de confirmer la présence d'hydrocarbures. Dans cette partie, nous nous intéresserons uniquement au forage vertical terrestre, conscients que d'autres types de forages existent tels le forage horizontal sur terre, ainsi que diverses autres techniques d'extraction en mer.


Avant d'implanter les installations de forage très coûteuses, il faut d'aborddéterminer l'endroit idéal où s'effectuera le forage. Pour ce faire, les installations sont implantées en fonction de la topographie du terrain et des précieuses informations recueillies lors de l'exploration. Dans le cas du forage vertical terrestre que nous étudierons, les installations se situent directement au-dessus du gisement, à la verticale de l'épaisseur maximale de la poche supposée contenir des hydrocarbures (voir schéma ci-contre).

b) Principe du forage "Rotary"

       Afin d'accéder directement à la poche contenant les hydrocarbures, les foreurs vont devoir réaliser un trou de forage. 
En 430 avant JC, les Chinois foraient déjà les premiers puits à l'aide d'une tige de bambou : la pointe cognait la terre et perçait le sol. Cette technique fut utilisée pendant des siècles avec quelques variations sur les outils. Actuellement, la méthode de forage généralement utilisée est celle du Rotary, bien plus rapide et efficace.

Cette méthode consiste tout d'abord à mettre en place un appareil de forage (voir schéma plus bas). Celui-ci est très cher, coûtant 3 millions d'euros en moyenne.
La première étape est la mise en place du Derrick de forage, une tour métallique de 30m de haut en moyenne, servant à introduire verticalement les tiges de forage (4).
Exploitation proprement dite
 Ces tiges correspondent à une chaîne de tubes vissés les uns aux autres au bout desquelles se trouve un outil de forage (5), le trépanmuni de dents ou de pastilles en acier très dur. À la manière d'une perceuse électrique, le trépan attaque la roche en appuyant mais surtout en tournant à grande vitesse : il casse la roche, la broie en petits morceaux, et s'enfonce petit à petit dans le sol. A mesure que l'on s'enfonce dans le sous-sol, on rajoute une tige de forage en la vissant à la précédente et ainsi de suite. 
L’ensemble des tiges avec son trépan qui creuse au bout s’appelle letrain de tiges (1). Pour les roches très dures, les dents du trépan ne sont pas assez solides, on le remplace alors par d'autres outils de forage de différentes formes et constitués de différents matériaux. Un outil monobloc incrusté de diamants  est par exemple utilisés pour forer les roches les plus résistantes.

Pour éviter l’effondrement du trou, des cylindres creux en acier sont posés en même temps que les tiges sur toute la longueur du trou pour constituer un tube, ces tubes sont vissés les uns aux autres au fur et à mesure de la progression du forage : c'est le tubage (3)Ce tubage n'est pas directement réalisée dans la roche nue, mais est retenu par du ciment (2).

Plus on pose de tubes, plus le diamètre du trou de forage devient petit : le tubage posé occupe de l’espace etréduit le diamètre initial du trou. Ainsi, un trou de forage d’un diamètre de 50 cm au départ, peut être réduit à 20 cm après la pose de plusieurs tubages.Exploitation proprement dite
Pour éviter que le trou se rebouche au fur et à mesure du forage, il faut enlever les débris de roche et nettoyer le fond du puits. Pour cela, on utilise un fluide de forage aussi appelé boue de forage par son aspectCe fluide indispensable au forage a une composition spéciale déterminée par un Ingénieur spécialisé, adaptée aux terrains traversés lors du forage.
Un circuit fermé permet de recycler la majeure partie de boue utilisée. Elle est mélangée et conservée dans un bassin, acheminée par la colonne d'injection de boue, vers la tête d'injection qui la propulse dans le train de tiges. Elle descend alors jusqu'au fond du puits et "traverse" le trépan grâce à des trous percés dans celui-ci et se retrouve dans les débris. Sous l'effet de la pression, la boue remonte entre les parois du puits et le train de tiges, emportant avec elle les débris arrachés. Une fois à la surface, une conduite d'aspiration attire la boue jusqu'à un tamis vibrant qui sépare les débris de la boue, ensuite renvoyée dans le bassin de décantation. Et ainsi de suite.
Le fluide de forage sert également à stabiliser la pression sur les bords du puits pour leur éviter de s'écrouler, elle lubrifie et refroidit les outils et permet surtout de prévenir des éruptions.

Le trou de forage aura généralement une profondeur comprise entre 2000 et 4000 mètres. Exceptionnellement, certains forages dépassent les 6000 mètres, et l'un d'eux a même dépassé les 11 000 mètres. Cela nous amène à dire que certains gisements peuvent être enfouis à une profondeur équivalente à la hauteur de 12 tours Eiffel !

Exploitation proprement diteLEGENDE :


(1)
 Fixation du palan

(2)
 Derrick(3) Palan mobile (une sorte de double corde métallique très solide sous forme de poulie)
(4)
 Crochet(5) Tête d'injection 
(6)
 Colonne d'injection de boue(7) Table de rotation entraînant les tiges de forage
(8)
 Treuil(9) Moteur(10) Pompe à boue(11) Bourbier




c) Quand arrêter de forer ?
      Forage et exploitation
La boue remontant à la surface est analysée par les géologues, à la recherche de traces d'hydrocarbures. Lorsque les géologues pensent que le forage traverse un réservoir, il peuvent ordonner un carottage. Le train de tiges est alors remonté et l'outil de forage est remplacé par un carottier. Le dispositif est redescendu et on fore à nouveau, mais cette fois sans broyer la roche : le carottier découpe un cylindre de roche qui est conservé dans l'outil. Dès que le carottier est plein, celui-ci est remonté à la surface. On en retire alors une carotte de plusieurs mètres, qui n'est autre que l'échantillon cylindrique de roche découpé.
Cette carotte est très utile : elle fournit des informations indispensables sur la nature de la roche, l'inclinaison des couches, sa structure, sa perméabilité, porosité etc. Les géologues peuvent alors déterminer si elle contient des hydrocarbures.
Les spécialistes procèdent également à d'autres tests : les diagraphies. Une sonde électronique est descendue dans le puits et mesure précisément les paramètres physiques de la roche traversée. Les mesures sont traitées par des ordinateurs, puis analysées par des Ingénieurs spécialisés.
Le forage est stoppé lorsque le pétrole est atteint. Le train de tiges est remonté à la surface et éventuellement démonté. On descend alors des explosifs au niveau de la roche réservoir, où est piégé le pétrole. Les explosions percent le tubage interne et permettent au pétrole de s'échapper de la roche et de pénétrer dans le puits pour remonter naturellement à la surface lorsque la pression est assez forte. Le Derrick des puits est alors démonté et remplacé par une tête de puits, appelée aussi "arbre de Noël" à cause de sa forme. Il s'agit d'un ensemble de vannes, reliées au tubage interne, qui sont destinées à contrôler le débit du puits. Les foreurs installent ensuite un orifice calibré, la duse, par lequel le pétrole remonte. Les spécialistes vont procéder au test de débit sur duse : ils laissent le pétrole remonter vers la surface pendant plusieurs heures voir plusieurs jours, en mesurent la quantité recueillie, ainsi que l'évolution de la pression du fond du puits. Grâce à ce test, les spécialistes peuvent essayer de déterminer la productivité du gisement

Lorsque le forage est un succès, il faut encore forer plusieurs puits pour bien connaître le gisement. Si celui-ci s'avère prometteur, on peut alors envisager une exploitation, correspondant à une production de pétrole. 

EXPLORATION DU PETROLE


Compte tenu de coûts et d'enjeux pharaoniques, l'exploitation du pétrole ne se fait pas au hasard, et la présence de pétrole ne garantit pas son exploitation. Afin de trouver du pétrole dit "exploitable", il faut d'abord localiser un piège, puis déterminer la quantité de pétrole disponible : on se demande alors si forer un puits pour l'extraire serait rentable.
Il faut ainsi éviter tous forages inutiles, et repérer du mieux possible les endroits du sous-sol contenant potentiellement du pétrole : c'est l'exploration pétrolière
La première étape consiste à identifier les zones potentiellement pétrolifères en menant des études géologiques. Il faut ensuite procéder à des études géophysiques indispensables, qui permettent d'identifier les zones où il y a de fortes chances de trouver du pétrole.
Ces études ne garantissent en rien la présence de pétrole, la vérification des hypothèses s'impose avant de procéder au forage.


1. Identifier les zones potentiellement pétrolifères

Aux débuts de l’exploration pétrolière, la prospection était très aléatoire. Sauf quand le pétrole affleurait à la surface, les puits étaient généralement forés sur la base de vagues présomptions, et les résultats étaient bien souvent décevants. Edwin Laurentine Drake connu comme le "Colonel Drake" est le premier à forer un puits dans le but précis de trouver du pétrole. Le 27 août 1859, il fait jaillir du pétrole à Titusville, en Pennsylvanie.
On se contentait alors de forer les pièges visibles en surface, mais on s’est très vite rendu compte que cela ne suffisait plus... Or, beaucoup de structures sont masquées par des dépôts de sédiments, et il est impossible de localiser à l'oeil nu les nombreux pièges situés sous la mer...
De nos jours, pour trouver le pétrole brut sous la surface de la Terre, les géologues doivent tout d'abord d'intéresser aux bassins sédimentaires dans lequels le pétrole et le gaz ont pu se former. Il y a de nombreux bassins sédimentaires à la surface de la terre : on en trouve bien sûr en mer, mais également sur les continents, dans des zones autrefois recouvertes par la mer.
Les géologues connaissent dors-et-déjà l'emplacement des bassins prolifiques, zones riches en gaz/pétrole ainsi que les zones moins riches, voir stériles.
Ces bassins sédimentaires sont plus ou moins explorés : ceux connus depuis longtemps ont déjà fait l’objet de nombreux forages et ont très peu de chances de recéler de nouveaux gisements super-géants ou même de grande taille : on parle alors d'exploration mature. C’est le cas par exemple de la mer du Nord, où les compagnies pétrolières cherchent à se positionner sur des régions encore peu matures, espérant découvrir de gros volumes d’hydrocarbures exploitables.
Il reste néanmois du travail d’exploration à faire même dans ces zones matures où l'on recherche des gisements plus petits ou plus subtils (plus difficiles à voir ou imaginer). On peut aussi forer à côté de gisements déjà découverts.
Exploration pétrolière
Dès lors que les géologues ont repéré une zone exploitable, ils s'interrogent quant à la configuration du sous-sol et des types de roches présentes : il vont alors tenter de dresser une carte géologique du sous-sol.
Pour ce faire, ils étudient le relief et accordent une attention toute particulière aux indices de pétrole et de bitume qui peuvent apporter des informations utiles sur la probabilité d'accumulation de pétrole en profondeur. Ces observations s'accompagnent d'analyses géochimiques des couches ayant pu jouer le rôle de roche mère, ainsi que de petits sondages de reconnaissance.
Lorsque le relief est accidenté ou que la surface du sol est masquée par la végétation, les géologues ont de plus en plus recours à la télédétectionpour dresser les cartes géologiques. Des clichés sont pris d'un avion ou d'un satellite pour pouvoir être analysés par la suite. On travaille avec des longueurs d'onde différentes de celles de la lumière visible, ce qui permet d'éliminer l'image de la végétation sur les prises de vue et de définir les grands traits de l'architecture du bassin.
La carte géologique réalisée, les géologues ne peuvent pas visualiser les endroits contenant du pétrole, mais peuvent repérer des roches pouvant potentiellement être des roches-mères. Pour confirmer leurs hypothèses, il faut prélever et analyser la roche. Après avoir été broyées, les roches prélevées sont brûlées pour doser le gaz carbonique émis, représentant le carbone organique piégé dans l'échantillon. Pour être une roche-mère potentielle, il en faut au minimum 1%.
Après avoir repéré un terrain favorable depuis la surface, il faut maintenant voir si la structure du sous-sol l'est aussi. C'est alors au tour des géophysiciens de faire des études pour imager le sous-sol.

2. Etudes géophysiques : l'imagerie du sous-sol 

Pour localiser les pièges potentiels, on fait tout d'abord appel à une sorte "d’échographie du sous-sol" : lasismique réflexion, permettant de donner une image du sous-sol malheureusement floue donc pas fiable à 100%. D'autres études géophysiques sont également menées avant forage afin d'essayer de confirmer la présence d'hydrocarbures.
Enfin, il faut établir une synthèse des études de toutes ces données, en essayant de ne rien oublier dans le raisonnement conduisant à affirmer qu'il y a de grandes chances de trouver du pétrole ou du gaz à tel ou tel endroit.

a) La sismique-réfléxion

La sismique réfléxion, une véritable “méthode miracle”, s’est développée à partir des années 1930, afin de localiser plus efficacement de nouveaux gisements de pétrole prometteurs.

 Principe de la sismique-réfléxion : 
Exploration pétrolière
1) A partir d'une explosion ou d'une masse tombant sur le sol, on émet des ondes dans le sol.

2) Ces vibrations se propagent dans toutes les directions. 

3) Dès lors qu’elles rencontrent une couche géologique, une partie des ondes seréfléchissent et repartent vers la surface. 
Une autre partie d’entre elles se réfracte, continuant à aller plus profondément, jusqu’à rencontrer une seconde couche géologique.
Le processus se répète ainsi de suite.
4) En plaçant des récepteurs très sensibles : les géophones, à distance de l’émetteur, on récupère et on enregistre donc toute une série complexe d’ondes : les premières à arriver sont celles qui se sont déplacées en surface, puis viennent celles qui se sont réfléchies sur la première couche géologique, puis celles réfléchies sur la suivante, et ainsi de suite. 
On mesure de la sorte le temps qu’a mis une onde réfléchie sur une couche géologique pour se déplacer de l’émetteur au récepteur. 
En déplaçant émetteur et récepteur de nombreuses fois, on parvient à construire une image en temps et à deux dimensions (2D) du sous-sol et des couches géologiques.
5) On émet ensuite des hypothèses sur les vitesses de propagation des ondes dans les différentes couches, ce qui permet de construire une image en profondeur, celle qui intéresse le plus les géologues et les foreurs. A partir de cette image, on réalise ensuite une coupe géologique plus parlante.
En utilisant toute la série de ces images 2D en temps et en profondeur, on dresse des cartes du sous-sol pour évaluer les pièges à hydrocarbures.
Exploration pétrolière


En mer, l’enregistrement sismique se fait à partir d’un bateau traînant derrière lui un chapelet de récepteurs flottants, les hydrophones. La technique de base reste la même que sur terre à une difference près : les sources utilisées pour émettre les ondes sont différentes. En général, on utilise des canons à air qui déchargent brusquement dans l'eau de l'air comprimé à haute pression pour provoquer une onde sismique.
Cette technique est “plus facile”, car il n’y a pas d’obstacle naturel au déplacement de l’émetteur et des récepteurs d’ondes. La "couche" d'eau est considérée comme une couche rocheuse homogène, très facile à pénétrer.

Exploration pétrolière
Afin d’obtenir une image plus précise et plus fiable du sous-sol, on emploie la technique de la sismique 3D plus chère, mais beaucoup plus efficace que la 2D. Elle permet même souvent de repérer directement les hydrocarbures dans les couches géologiques. Les récepteurs sont placés en nappes afin de construire une image du sous-sol en volume (en trois dimensions).
La technique de la sismique 4D va plus loin encore, en faisant intervenir la quatrième dimension : le temps. Sur un gisement en production, on effectue plusieurs enregistrements successifs de sismique 3D, à intervalles de temps réguliers. La comparaison des enregistrements permet ensuite de suivre l’évolution du gisement pendant sa production.
Photo : Vue d'un ingénieur informaticien en train de visualiser une vue 3D de modèle de réservoir dans la salle de géovision de Pau. Le CSTJF (Centre scientifique et technique Jean Feger) est un centre de recherche spécialisé dans la recherche géologique et les hydrocarbures.
L’imagerie sismique est malheureusement imparfaite et jamais fiable à 100 %.
b) Autres études géophysiques

Les mesures de la gravimétrie ou de la variation du champ magnétique sont d'autres techniques, complémentaires à la sismique, qui permettent de déterminer la géométrie du sous-sol. La gravimétrie permet en particulier de modéliser les densités des couches. Nous ne nous étendrons pas sur ces études dans ce TPE.


3. Vérification des hypothèses

A la fin des études sur une zone, géologues et géophysiciens ont réalisé la carte géologique, ont établi l'imagerie 2D, 3D voir même 4D du sous-sol, et ont défini un certain nombre de prospects. Pour chaque prospect, ils ont calculé une fourchette de réserves potentielles (celles-ci ne peuvent pas êtres calculées précisément) de pétrole et de gaz. Les réserves représentent la part de l’accumulation que l'on va pouvoir extraire et ramener à la surface pour l’exploiter. 
Actuellement, une campagne de prospection sur six est un succès : parmi six puits forés à titre exploratoire, un seul est déclaré productif et peut servir à l'extraction de pétrole. Les autres n'en contiennent pas ou trop peu pour être rentables aux vues du prix du baril.
Un forage à titre exploratoire peut être réalisé : on creuse un puits pour vérifier s'il y a du pétrole. Les installations mises en place sont temporaires et donc moins complètes que pour un forage d'extraction, mais les mêmes méthodes sont utilisées. 
Etant donné le coût très important de la réalisation d'un tel forage (au minimum 3 à 4 millions d’euros à terre et 20 à 60 millions d’euros en mer, voir plus de 100 millions d’euros pour des forages très profonds ou dans des conditions difficiles), les compagnies pétrolières pèsent bien le pour et le contre avant de prendre la décision de forer !

Dans la prochaine partie, nous étudierons le forage ainsi que la production pétrolière.

FORMATION DU PETROLE


De l'Antiquité au siècle des Lumières, une multitude d'hypothèses ont été émises quant à la formation du pétrole : origine divine, minérale... Ce n'est qu'en 1758 que J.P. Mouquer  admettait que le pétrole avait une origine organique, qu'il était issu de restes d'animaux et/ou de la décomposition de végétaux. Aujourd'hui, nous savons que le pétrole a effectivement une origine organique.
Le pétrole est une ressource naturelle, non renouvelable, formée au cours des âges géologiques à partir de matières organiques dans les profondeurs du sol. C'est une roche liquide carbonée, également appelée huile minérale.
C’est après la Seconde Guerre mondiale, durant les « 30 glorieuses » que le pétrole devient l’énergie dominante, accédant ainsi au statut de produit stratégique par excellence. Durant ces cinquante dernières années, il est devenu un élément quasi indispensable de la vie quotidienne, qu’il s’agisse des carburants, des plastiques ou des matières synthétiques. Avec la démocratisation de l’automobile à partir des années 1950, la consommation pétrolière a quadruplé en 20 ans et le contrôle de cette ressource planétaire est devenu une question éminemment géopolitique

Une compétition toujours plus forte, qui ne fait que commencer du fait des besoins croissants des pays développés mais aussi des pays émergents comme la Chine et l’Inde, sur un marché déjà à flux tendus, aaccéléré l’exploration et la mise en production de nouveaux gisements un peu partout dans le monde et notamment dans les pays en développement ou à revenu intermédiaire.
Toutes les tensions géopolitiques réelles ou potentielles même si certaines sont nettement exagérées et exploitées par certains opérateurs dans une volonté délibérément spéculative, constituent néanmoins desmenaces qui pèsent sur les marchés pétroliers mondiaux au moment même où le système traverse une crise structurelle.  Dans ce contexte, le recours à l’analyse géopolitique permet de mieux comprendre l’importance des enjeux autour de la question pétrolière.

Nous nous demanderons en quoi l'exploitation du pétrole est d'un côté symbole de richesse et de succès économique, et de l'autre de pauvreté et de conflits. 


Dans ce dossier, nous étudierons tout d'abord l'exploitation du pétrole afin de mieux comprendre la formation et la production de cette ressource indispensable au fonctionnement du monde actuel. 
Nous verrons ensuite d'un côté les conséquences positives de cette exploitation, en quoi le pétrole peut être symbole d'une très grande richesse et synonyme de succès économique, et de l'autre les conséquences négatives de l'exploitation d'une ressource cause de pauvreté et déclencheuse de conflits, ces "guerres du pétrole" résultant de l'exploitation d'un "or noir" si convoité.

FORMATION ET ACCUMULATION DU PETROLE

Le pétrole s'est formé sous la surface de la Terre à la suite de la décomposition de matières organiques végétales et animales.

Formation et accumulationll y a quelques 600 millions d'années, d'innombrables végétaux, micro-organismes et espèces planctoniques, vivaient dans les océans. Lorsque les générations successives mouraient, leurs restes se déposaient au fond des océans. Pendant des millions d'années, ces restes s'accumulèrent et se mélangèrent dans des milieux confinés donc peu oxygénés, à une sorte de boue riche en sédiments (sable, argile, sel...), le limon. Des réactions réductrices transformèrent la matière organique en kérogène
L'accumulation continue de ces sédiments pendant des millions d'années enfouit naturellement ces couches organiques à de grandes profondeurs ; sous l'effet de la compression, celles-ci se transforment petit à petit en roches, qui deviennent alors des réservoirs de pétrole. En outre, par le phénomène de tectonique des plaques agitant le manteau terrestre, ces couches sédimentaires se cassent, et son entraînées encore plus profondément dans l'écorce terrestre.
En s'enfonçant de plus en plus profondément, la température ainsi que la pression des couches s'élève, entraînant une transformation chimique des matières organiques d’origine en substances plus simples, les hydrocarbures, composés de carbone et d'hydrogène. 
Ces hydrocarbures sont ainsi contenus dans une roche que l'on appelle roche mère. Moins denses que la roche qui les entoure, ils ont naturellement tendance à remonter vers la surface. Lors de la migration primaire, le gaz expulse progressivement l'eau et le pétrole vers une couche géologique voisine, apparemment solide, mais très poreuse et perméable : la roche réservoir. Ensuite, une migration secondaire s'opère : les hydrocarbures continuent leur remontée, vers la surface cette fois-ci. Si rien ne stoppe la remontée du pétrole, il s'échappe alors sous forme de suintements, et se solidifie en bitume à la surface de la terre (voir schéma en bas de page). 
Cependant, lorsque le pétrole rencontre une couche de roche imperméable, la roche couverture, il est arrêté dans sa remontée, et se concentre pour former des poches, c'est le piégeage.
L'eau ayant la plus forte densité et le gaz la plus faible, trois couches se distinguent dans ces poches : le gaz, puis le pétrole et en dessous, l'eau.
Ces pièges, ou gisements sont à l'origine des réservoirs actuels de pétrole.

 Le pétrole, l'eau et le gaz ne s'accumulent pas de la même façon dans chaque gisement... Il existe différentes structures pièges. Tout dépend des phénomènes géologiques qui se sont produits à cet endroit ! 
Le plus courant des "pièges à pétrole" est l'anticlinal, qui résulte du plissement convexe de roches stratifiées. Sous le dôme ainsi formé, on peut trouver du pétrole, prisonnier de la roche couverture, imperméable.
Formation et accumulationFormation et accumulationFormation et accumulation
   En rouge : Gaz   |  En vert : Pétrole  |  En bleu : Eau
Schémas : Piège Anticlinal et autres exempes de pièges.

Si l'on fore un puits pour percer la roche imperméable, on peut alors ramener le pétrole à la surface.L'exploration pétrolière, que nous étudierons dans une prochaine partie, consiste essentiellement à repérer les sites susceptibles, de par leur structure géologique, de retenir du pétrole ou du gaz.   

Formation et accumulation
Schéma bilan de synthèse de la formation et de la migration du pétrole.